Il mio nome è gatto.
Dare il nome ad un gatto è una cosa davvero importante. Ma anche estremamente difficile.
Il nome che porterà per tutta la vita deve in qualche modo riflettere non solo il suo carattere ma anche contenere tutte quelle qualità che sono proprie dei gatti di tutto il mondo come l’indipendenza, il senso di libertà, l’astuzia, e quella sorta di innata nobiltà che tanto ci attrae. Disse lo scrittore Samuel Butler: “Dicono che il test per conoscere la capacità di fare letteratura sia per un uomo essere in grado di scrivere un’iscrizione. Io dico: è egli in grado di dare un nome ad un gattino?”
Quando giunge il momento di “battezzare” il micio spesso si riflette per giorni. Si vagliano nomi di gatti celebri, quelli di personaggi famosi, di cartoni animati, di città e paesi, anche i nomi che comunemente si danno alle persone. Ma ci si dimentica che il nostro piccolo amico possiede già un nome, il più bello e soprattutto quello che ha maggior significato. E’ il suo: gatto.
Il nome “gatto” contiene in sé l’intera, millenaria storia dell’amicizia tra uomini e animali. Forse l’amicizia, quella tra uomo e micio, più sincera e assolutamente non contaminata dalla schiavitù dell’addomesticazione.
Ormai è certo che il gatto divenne amico dell’uomo in Africa. Fu l’area mediterranea nordafricana il teatro che vide, per la prima volta, l’intesa tra un uomo e un esemplare di gatto selvatico, la prima scintilla di quella “storia d’amore” che ancora oggi risplende.
Oltre alle testimonianze dei reperti archeologici, esiste anche un altro fatto che proverebbe l’origine mediterranea dei primi gatti domestici: il loro nome. In Nordafrica i piccoli felini che vivono con l’uomo sono indicati col termine di “quttah”. Da questa parola è derivato non solo il termine latino “cattus” e poi “gatto”, ma gran parte delle altre parole che in tutta Europa definiscono il micio. In inglese infatti gatto si dice “cat” che diventa “chat” in francese e “katz” in tedesco. In spagnolo è “gato”, in olandese è “kat” e in svedese e norvegese “katt”. E poi nella remota Islanda gatto si dice “kattur” e in Polonia è “kot”, a Malta è “qattus” e in Cecoslovacchia è “kocka” mentre in Finlandia si dice “katti”. In lingua yddish si dice “kats”, in svizzero “kaz”, in bulgaro “kotka” e in lituano “kate”. Persino in India, in lingua indostana, gatto si dice “katas”. Come si vede tutte queste lingue si riferiscono al micio con parole che possiedono un’unica antica radice.
Nel suo famoso libro “Catwatching” lo zoologo inglese Desmond Morris analizza anche altri termini che comunemente vengono usati, in lingua anglosassone, quando si parla dei gatti. Termini che avrebbero un’origine egiziana o araba. Morris evidenzia come ad esempio “kitty” che in inglese vuol dire gattino derivi probabilmente dal turco “kedi” e cioè gatto. Anche “pussy” il nomignolo con cui in inglese vengono chiamati un po’ tutti i gatti deriverebbe da “Pasht” e cioè l’antico nome di Bast, la dea egiziana protettrice dei gatti. Inoltre dal turco “utabi” che specifica un gatto tigrato deriva il termine “tabby” molto usato nei concorsi felini per indicare proprio mici dal mantello tigrato.
Nel libro “The big book of cats” lo scrittore Armand Eisen prosegue sull’argomento e spiega come la “k” sempre presente nelle parole europee che significano gatto, si trova in tante altre parole che in diverse lingue qualificano il micio domestico. Ad esempio i popoli swahili dell’Africa centrale dicono “paka”, i giapponesi “neko”, i coreani “ko-yang-ee”, i polinesiani “popoki”, gli Zulu del Sudafrica “ikati” e i malesi “kutching”.
Roberto Allegri